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Progettare una scenografia significa per me tentare di costruire uno spazio che "suoni", che faccia risuonare la voce degli interpreti, un po' come la cassa armonica di una chitarra. Immagino la scena come se fosse uno strumento o un sistema in cui ogni parte è necessaria. Ogni opera teatrale imposta le sue regole di gioco e la scenografia ne è parte indispensabile, almeno come lo è la scacchiera nel gioco degli scacchi. Essa è dunque un linguaggio e come tale ha le sue parole, fra le quali la materia, l’oggetto, il colore che, accordate all’azione e al testo, modellano lo spazio. Lo spazio è il supporto dello scenografo: lo spazio scenico.

Intendo tali elementi fisici, al pari degli attori vivi, come materie prime. Se ben accostati, come in una pila di Volta, attori e materia reagiscono "chimicamente" fra loro creando energia. Preparo scene dalla confezione poco elaborata. Temo istintivamente che una confezione troppo complessa possa ostacolare le reazioni naturali fra gli elementi organici e inorganici che regista e scenografo predispongono sulla scena. La cassa armonica, in fondo, è solo legno e spazio vuoto. Cerco spesso la guida degli elementi primi, a cui lasciare ampia autonomia e da manomettere il meno possibile. Ad esempio, il fragore visivo del bronzo per tavoli-palcoscenico, l'armonia del crollo di un edificio di carta, la tensione fisica delle corde su cui si regga un'intera scena, il vento che soffia fra nastri di seta, la frattura delle assi del palco, la scucitura di un fondale da cui forse si genereranno azioni impreviste.

Il gioco vero del mio di lavoro, dopo aver costruito un sistema essenziale, è intuirne le incrinature, e riuscire a non chiuderle perchè è lì che di solito, si infiltra la vita. Lasciare varchi attraverso i quali la scena possa accadere. Nonostante il progetto.

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